Monte Vettore: il percorso e le sue conseguenze

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Non è facile raggiungere il punto di partenza.

Che si arrivi dalle Marche o dall’Umbria, per raggiungere Forca di Presta è necessario un passaggio in auto, dai più vicini centri abitati, di almeno un’ora. Il luogo di partenza è senza personalità. Auto parcheggiate a caso, paninerie ambulanti, una fonte sghemba prosciugata da logiche di mercato.

Il sentiero che ti aspetta è lì. Immobile. Secco. Irto.

Lo guardi con rispetto perché sai che ti dovrà portare verso l’obiettivo prescelto: il lago di Pilato, la vetta di monte Vettore, la cima del Redentore. La meta prescelta per quest’anno è stata la cima del Vettore, la più alta dei monti Sibillini.

L’inizio del percorso non ti lascia scampo. Dai primi passi la menzogna di chi ti aveva detto che sarebbe stato facile si disvela, ti ricorderai benissimo delle persone che l’hanno fatto e di quelli che invece ti avevano avvertito. I tuoi affetti verranno divisi con precisione chirurgica di chi è stato sincero e di chi non lo è stato e sui secondi cadrà la mannaia dei brutti pensieri.

Meno di 500 metri di terra e polvere possono e devono essere affrontati lasciando a casa la razionalità altrimenti il “chi me lo fa fare” vince senza fare prigionieri. L’inizio è faticoso ma con un briciolo di pazzia, con l’aiuto del cortisolo (ormone dello stress, primo a prodursi per uno sforzo fisico), dell’insulina e delle catecolamine (adrenalina e noradrenalina), si raggiunge il primo risultato: la pendenza diminuisce, il sentiero si fa più lieve.

Sono 300 metri di gioia illusoria ma lo scoprirai alla fine. I muscoli sono meno tesi, il respiro si fa più regolare, pensi che il peggio sia passato. Un miraggio, solo un fottuto miraggio. Dopo quei trecento metri di palme, fonti e oasi, il massiccio si presenta sotto forma di un muro messo li da qualche divinità votata al maligno. Una via, l’unica, ideata per esseri a 4 zampe, non certo per noi bipedi.

Appena inizi ad affrontare questo passaggio, ti rendi conto che non basta la pazzia del primo tratto condita con la chimica dei neurotrasmettitori. Serve altro, serve qualcosa di più potente, di più efficace.

La forza la trovi nelle persone che ti circondano, quelle del tuo gruppo, gli sconosciuti che incontri o che vedi in lontananza. Ti viene in aiuto l’aspetto sociale dello sforzo. Capisci che non lo fai solo per te stesso, lo fai anche per il gruppo di cui fai parte, per la comunità con cui vivi.

Non è, come prima, un abbandonarsi alla forza del corpo, una regressione ancestrale e gutturale. Abbiamo bisogno di riconoscerci e di riconoscimento. L’adrenalina viene affiancata dalle endorfine che sono responsabili delle sensazioni piacevoli di gratificazione e dalla serotonina, l’ormone della felicità e quando sei felice vuoi che gli altri lo sappiano, hai bisogno di comunicare, è un feed-back continuo tra donare felicità e riceverla.

In quel tratto ti vedi e vedi gli altri, anzi li senti. Non solo come presenza fisica incontestabile ma ne vedi i segni sotto forma di orme e tracce lasciate dai tuoi predecessori. Senti il peso ed il valore della storia, ne fai parte. Non puoi deluderla e vai avanti.

Tu non deluderai i tuoi simili e la ricompensa ti verrà elargita con l’allargamento del sentiero che da pochi centimetri diventa di qualche metro, quasi a voler dire: “ci sei riuscito, mi hai sfibrato, ho deciso di darti spazio”.

Quello spazio largo è ossigeno per la tua mente, ti aiuta a riconoscere il contesto, ti fa girare lo sguardo e scegliere strade alternative. È un procedere a zig-zag che disvela le meraviglie intorno a te che impari ad osservare ed apprezzare. Il sentiero largo allarga anche il tempo, collega il tutto con logiche che non comprendi ma che ti danno pace.

Poi la meraviglia delle meraviglie, una gradinata messa lì da chissà quale civiltà extra-terrena in chissà quale epoca. Trochi secchi incastonati nel terreno e tenuti fermi da barre di metallo. Percorrerla è complicato ma apprezzi il fatto che lo sarebbe ancora di più se il terreno fosse libero da sovrastrutture. E’ il momento in cui ti pare chiaro che c’è sempre la possibilità che qualcuno ti aiuti, senza chiedere nulla in cambio, senza listino, solo riconoscenza.

Ed il concetto di struttura appare ancora più chiaro quando raggiungi il rifugio Zilioli, il bivacco dei Sibillini posto a guardia di quella vetta che dista solo una trentina di minuti. Sei arrivato e già questo è un buon traguardo ma soprattutto sei insieme ad altre persone, le stesse che come te vagavano percorrendo il sentiero allargato e impreciso. Hai trovato un punto nel tuo percorso, puoi riposarti, mangiare qualcosa, fare 2 chiacchiere. Hai capito che ci sei riuscito ed è proprio in quel momento che troverai persone che non andranno oltre, che si sono fermate non per fatica o volontà ma perché hanno scoperto il loro confine che per i più stolti diventa limite. Limite da superare, perché ci puoi riuscire, ce la puoi fare, non essere un perdente!

Essere perdenti significa non godere del percorso e non riconoscerne i confini. Non è una gara, una sfida. Il riconoscimento di se stessi, del proprio agire, delle proprie capacità e di quello che si vuole fare e dare, questo è essere vincenti. Quelle persone che aspettano al rifugio sono eroi al pari di quelli che continuano ma la loro autostima è compiuta, solida a differenza di quelli che la andranno a cercare sulla cima.

Si continua su di un terreno libero da sentieri visto che in quella sommità segnare la via sarebbe stato un esercizio superfluo, l’obiettivo si vede ad occhio nudo ed a te spetta soltanto scegliere la direzione ed i tempi. I sassi si fanno sempre più grandi e invadenti e ti ricordano che quelli calpestati in precedenza sono più antichi e più banali.

La cima ti aspetta con pazienza. Una scarica di dopamina prelude ad una ricompensa che rimarrà nella tua memoria. Assapori con calma le dediche di chi è stato li prima di te e lo consideri un collega, un complice.

Un pensiero lo rivolgi al ricordo che tanti colleghi hanno di persone che non ci sono più e ne afferri l’ironia: in quei luoghi viene a mancare il concetto di fine, termine, morte.

Ora sei pronto a percorrere lo stesso tragitto al contrario, lasciando fluire la forza di gravità. Non ci sono sforzi sovrumani da compiere, è più semplice, l’obiettivo è ormai raggiunto.

L’errore però ti coglie proprio in quel percorso, quando credi che il peggio sia passato. L’inciampo, le articolazioni che cedono, la distrazione possono, e l’hanno fatto, costare il termine del tuo viaggio.

Allora devi focalizzare, senza sforzo fisico ma con impegno e dedizione devi scegliere dove mettere i piedi perché sai che basterebbe un centimetro per un brutto incidente, per rimettere in discussione tutto il viaggio.

L’arrivo è bellissimo, l’acqua della fonte quasi prosciugata è buonissima. Stai bene e già assapori il gusto di un altro viaggio, un’altra avventura, un altro obiettivo.

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